domenica 7 luglio 2013

Andrea Camilleri. E la lingua «s'arrisbigliò»


Il suo tipico mix italo-siculo è in sintonia con le abitudini espressive degli italiani: 
dai dati Istat si vede che il ritorno soft al dialetto 
è coinciso con il successo dei suoi romanzi 

Giuseppe Antonelli 
  
"Domenica - Il  Sole 24 ore",  20 gennaio 2013


 «Che tramonto bello! - fece il maresciallo Corbo scostando per un attimo il fazzoletto che teneva premuto sul naso. - Ce ne sono, dalle parti tue, tramonti così?». «S’arrisbigliò che erano appena le sei e mezza del mattino, arriposato, frisco, e perfettamente lucito di testa. Si susì, annò a raprire le pirsiane, taliò fora». Dal tramonto all’alba è passato quasi mezzo secolo, ma la penna è sempre la stessa: quella di Andrea Camilleri, che così apre - rispettivamente - Il corso delle cose (scritto nel 1968 e pubblicato solo dieci anni dopo) e Una voce di notte (uscito nell’ottobre 2012 e subito balzato al primo posto delle classifiche). 
In quel romanzo d’esordio che all’epoca nessuno volle pubblicare («furono dieci gli editori che dissero no», racconta Camilleri in una recente intervista), i primi sicilianismi arrivano solo alla seconda pagina, quando entra in scena un contadino. Nell’ultimo (penultimo, se si tiene conto del recentissimo Il tuttomio, appena uscito per Mondadori, che riprende la linea extrasiciliana dell’Intermittenza), si presentano da subito in una concentrazione molto alta. Sono ormai una cifra stilistica, un marchio di fabbrica: alcuni - come taliari - sono diventati a tutti gli effetti "camillerismi". La dialettitudine che all’inizio teneva ai margini lo «scrittore italiano nato in Sicilia» (come Camilleri ama definirsi, prendendo le distanze dalla sicilitudine di cui parlava Sciascia) ora lo tiene ben saldo al centro della scena. 
In quel primo esperimento, però, la scelta sembra ancora risentire dell’idea neorealista del dialetto per difetto. «Lingua e dialetto non sono lessicalmente e sintatticamente fusi e, perciò, assumono funzioni distinte: con la lingua l’autore descrive paesaggi e stati d’animo, con il dialetto rappresenta la realtà locale», nota Mariantonia Cerrato, la giovane autrice del saggio L’alzata d’ingegno. Analisi sociolinguistica dei romanzi di Andrea Camilleri. Un lavoro attento di scrutinio e categorizzazione che - tratto dalla sua tesi laurea - non è esente da qualche acerbità, ma si rivela molto utile per fare il punto (anche bibliografico e sitografico) sulla lingua di Camilleri. 
Innanzi tutto bisogna chiedersi: quale lingua? quella dei gialli o quella dei romanzi storici? quella delle "cose scritte" o quella delle "cose dette"? quella della voce narrante o quella dei personaggi? Ciò che colpisce nella scrittura di Camilleri, infatti, è la capacità di muoversi in un’ampia escursione linguistica modulata a seconda dei generi, dei contesti, degli effetti narrativi desiderati. Basta pensare a casi come Il re di Girgenti (definito da Camilleri la sua opera più impegnativa), in cui all’italiano si mescolano un siciliano antico reinventato e uno spagnolo e un latino pieni di errori e adattamenti («Voi, Capitano, siete un hombre che ha cerebro»). O alla Concessione del telefono, in cui trovano posto lettere che ricordano quella di Totò e Peppino alla malafemmena: «Datosi che i Sparapiano sono genti che nelli cose de la vita ci vanno di passo lento, pinsatocci e ripinsatocci, abbiamo ascritto al Tinenti dei Carabbinera». 
Certo, almeno per quanto riguarda i gialli, «nelle pagine in cui parla l’autore, la lingua utilizzata ès empre la stessa, ovvero quel misto di italiano e dialetto che rappresenta la lingua familiare di Camilleri». Che è poi - più o meno - la stessa lingua usata nei dialoghi dal commissario Montalbano. Per il resto, quasi a ogni personaggio si associa una lingua con sfumature o caratteristiche diverse in base all’ambiente, alla cultura, alla classe sociale. «La lingua "fa" il personaggio», scrive Cerrato: distingue ed evoca l’individualità di ciascuno, come il tema musicale nei film. Prestandosi bene - il che non guasta - a effetti di tipo comico. Tipico il caso dell’appuntato Catarella, col suo italiano popolare pieno di approssimazioni e fraintendimenti: «S’arricorda che le dissi di quel concorso d’informaticcia?» (ovvero informatica). 
È il dialetto per diletto. Una tecnica che si fa clamorosamente scoperta nel Birraio di Preston, in cui Camilleri mette in scena - ben rilevati sul fondale del suo dialetto materno - un mazziniano romano, un prefetto fiorentino, un questore lombardo e un colonnello piemontese. E ogni tanto cade nella trappola dell’ipercaratterizzazione: nessun fiorentino, ad esempio, "aspirerebbe" la c in espressioni come in ’aso di bisogno o qualhosa; nessun romano direbbe perché lo vor fare?. («Qualche anno fa», raccontava Camilleri in uno dei Posacenere scritti per questo supplemento, «in un liceo siciliano, venne deciso di far studiare il mio Birraio di Preston al posto dei Promessi sposi. Venutone a conoscenza, m’affrettai a pubblicare su un quotidiano una lettera a don Lisander nella quale mi dissociavo dall’iniziativa e mi proclamavo suo ammirato e fedele lettore»). 
Proprio con Il birraio di Preston, Camilleri partecipò al premio Strega del ’95, classificandosi a uno degli ultimi posti, lontanissimo dalla cinquina dei finalisti. Poi - inopinatamente - l’esplosione, cominciata giusto quindici anni fa (tra la fine del 1997 e il 1998): successo retroattivo per tutti i libri precedenti e successo garantito per tutti i libri a venire. Che cosa era accaduto? Che intorno era cambiata l’Italia,o - per essere più precisi - il modo di parlare degli italiani. 
Ancora nel 1997, alla pubblicazione dei dati Istat relativi a due anni prima, i quotidiani potevano titolare: Dialetti fuori moda («Il Corriere della sera»), Il dialetto piace sempre meno («Il Messaggero») o addirittura Addio dialetto («Il manifesto»). Non ci si era resi conto che la diffusione dell’italiano stava cambiando, insieme alla forma del dialetto (sempre più italianizzato), anche la sua percezione collettiva: non più marca d’inferiorità sociale, ma segnale di confidenza, emotività, ironia anche nell’uso delle persone colte. A confermarlo, le inchieste Istat del 2000 e del 2005, in cui un terzo degli italiani dichiara di usare abitualmente - in famiglia o tra amici - sia l’italiano sia il dialetto. 
Quella mescolanza tipica della scrittura di Camilleri è diventata l’esperienza quotidiana di gran parte dei parlanti. Se ne sono accorti anche i vocabolari, sempre più aperti verso parole d’origine regionale o dialettale: nell’appendice 2008 del Grande dizionario italiano dell’uso, Camilleri raggiunge quasi Calvino per numero di citazioni. Il dialetto non è più un delitto. 


Mariantonia Cerrato, L’alzata d’ingegno. Analisi sociolinguistica dei romanzi di Andrea Camilleri, Firenze, Cesati, pagg. 198

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