giovedì 25 luglio 2013

Ritratto dello scrittore da giovane

Fascinating Photos of Famous Authors as Teenagers




Ernest Hemingway a 17 anni, studente liceale

I classici annotati da famosi scrittori

Classic Books Annotated by Famous Authors


www.flavorwire.com
Emily Temple, 

lunedì 15 luglio 2013

I tempi dei pittori:infografica



Immagine più definita: clicca QUI.

Storia delle camere



"Dal parto all’agonia, la camera è il teatro dell’esistenza o almeno ne è il retropalco, il luogo dove il corpo nudo, deposta la maschera, si abbandona alle emozioni, al dolore, alla voluttà. Passiamo in una camera quasi metà della nostra vita, la metà più carnale, più sommessa, più notturna, quella dell’insonnia, dei pensieri vaganti, del sogno, finestra sull’inconscio e forse sull’aldilà; un chiaroscuro che accresce la sua forza di attrazione."

Michelle Perrot, Storia delle camere, Sellerio, 2012

domenica 7 luglio 2013

Supermercati


Andrea Camilleri. E la lingua «s'arrisbigliò»


Il suo tipico mix italo-siculo è in sintonia con le abitudini espressive degli italiani: 
dai dati Istat si vede che il ritorno soft al dialetto 
è coinciso con il successo dei suoi romanzi 

Giuseppe Antonelli 
  
"Domenica - Il  Sole 24 ore",  20 gennaio 2013


 «Che tramonto bello! - fece il maresciallo Corbo scostando per un attimo il fazzoletto che teneva premuto sul naso. - Ce ne sono, dalle parti tue, tramonti così?». «S’arrisbigliò che erano appena le sei e mezza del mattino, arriposato, frisco, e perfettamente lucito di testa. Si susì, annò a raprire le pirsiane, taliò fora». Dal tramonto all’alba è passato quasi mezzo secolo, ma la penna è sempre la stessa: quella di Andrea Camilleri, che così apre - rispettivamente - Il corso delle cose (scritto nel 1968 e pubblicato solo dieci anni dopo) e Una voce di notte (uscito nell’ottobre 2012 e subito balzato al primo posto delle classifiche). 
In quel romanzo d’esordio che all’epoca nessuno volle pubblicare («furono dieci gli editori che dissero no», racconta Camilleri in una recente intervista), i primi sicilianismi arrivano solo alla seconda pagina, quando entra in scena un contadino. Nell’ultimo (penultimo, se si tiene conto del recentissimo Il tuttomio, appena uscito per Mondadori, che riprende la linea extrasiciliana dell’Intermittenza), si presentano da subito in una concentrazione molto alta. Sono ormai una cifra stilistica, un marchio di fabbrica: alcuni - come taliari - sono diventati a tutti gli effetti "camillerismi". La dialettitudine che all’inizio teneva ai margini lo «scrittore italiano nato in Sicilia» (come Camilleri ama definirsi, prendendo le distanze dalla sicilitudine di cui parlava Sciascia) ora lo tiene ben saldo al centro della scena. 
In quel primo esperimento, però, la scelta sembra ancora risentire dell’idea neorealista del dialetto per difetto. «Lingua e dialetto non sono lessicalmente e sintatticamente fusi e, perciò, assumono funzioni distinte: con la lingua l’autore descrive paesaggi e stati d’animo, con il dialetto rappresenta la realtà locale», nota Mariantonia Cerrato, la giovane autrice del saggio L’alzata d’ingegno. Analisi sociolinguistica dei romanzi di Andrea Camilleri. Un lavoro attento di scrutinio e categorizzazione che - tratto dalla sua tesi laurea - non è esente da qualche acerbità, ma si rivela molto utile per fare il punto (anche bibliografico e sitografico) sulla lingua di Camilleri. 
Innanzi tutto bisogna chiedersi: quale lingua? quella dei gialli o quella dei romanzi storici? quella delle "cose scritte" o quella delle "cose dette"? quella della voce narrante o quella dei personaggi? Ciò che colpisce nella scrittura di Camilleri, infatti, è la capacità di muoversi in un’ampia escursione linguistica modulata a seconda dei generi, dei contesti, degli effetti narrativi desiderati. Basta pensare a casi come Il re di Girgenti (definito da Camilleri la sua opera più impegnativa), in cui all’italiano si mescolano un siciliano antico reinventato e uno spagnolo e un latino pieni di errori e adattamenti («Voi, Capitano, siete un hombre che ha cerebro»). O alla Concessione del telefono, in cui trovano posto lettere che ricordano quella di Totò e Peppino alla malafemmena: «Datosi che i Sparapiano sono genti che nelli cose de la vita ci vanno di passo lento, pinsatocci e ripinsatocci, abbiamo ascritto al Tinenti dei Carabbinera». 
Certo, almeno per quanto riguarda i gialli, «nelle pagine in cui parla l’autore, la lingua utilizzata ès empre la stessa, ovvero quel misto di italiano e dialetto che rappresenta la lingua familiare di Camilleri». Che è poi - più o meno - la stessa lingua usata nei dialoghi dal commissario Montalbano. Per il resto, quasi a ogni personaggio si associa una lingua con sfumature o caratteristiche diverse in base all’ambiente, alla cultura, alla classe sociale. «La lingua "fa" il personaggio», scrive Cerrato: distingue ed evoca l’individualità di ciascuno, come il tema musicale nei film. Prestandosi bene - il che non guasta - a effetti di tipo comico. Tipico il caso dell’appuntato Catarella, col suo italiano popolare pieno di approssimazioni e fraintendimenti: «S’arricorda che le dissi di quel concorso d’informaticcia?» (ovvero informatica). 
È il dialetto per diletto. Una tecnica che si fa clamorosamente scoperta nel Birraio di Preston, in cui Camilleri mette in scena - ben rilevati sul fondale del suo dialetto materno - un mazziniano romano, un prefetto fiorentino, un questore lombardo e un colonnello piemontese. E ogni tanto cade nella trappola dell’ipercaratterizzazione: nessun fiorentino, ad esempio, "aspirerebbe" la c in espressioni come in ’aso di bisogno o qualhosa; nessun romano direbbe perché lo vor fare?. («Qualche anno fa», raccontava Camilleri in uno dei Posacenere scritti per questo supplemento, «in un liceo siciliano, venne deciso di far studiare il mio Birraio di Preston al posto dei Promessi sposi. Venutone a conoscenza, m’affrettai a pubblicare su un quotidiano una lettera a don Lisander nella quale mi dissociavo dall’iniziativa e mi proclamavo suo ammirato e fedele lettore»). 
Proprio con Il birraio di Preston, Camilleri partecipò al premio Strega del ’95, classificandosi a uno degli ultimi posti, lontanissimo dalla cinquina dei finalisti. Poi - inopinatamente - l’esplosione, cominciata giusto quindici anni fa (tra la fine del 1997 e il 1998): successo retroattivo per tutti i libri precedenti e successo garantito per tutti i libri a venire. Che cosa era accaduto? Che intorno era cambiata l’Italia,o - per essere più precisi - il modo di parlare degli italiani. 
Ancora nel 1997, alla pubblicazione dei dati Istat relativi a due anni prima, i quotidiani potevano titolare: Dialetti fuori moda («Il Corriere della sera»), Il dialetto piace sempre meno («Il Messaggero») o addirittura Addio dialetto («Il manifesto»). Non ci si era resi conto che la diffusione dell’italiano stava cambiando, insieme alla forma del dialetto (sempre più italianizzato), anche la sua percezione collettiva: non più marca d’inferiorità sociale, ma segnale di confidenza, emotività, ironia anche nell’uso delle persone colte. A confermarlo, le inchieste Istat del 2000 e del 2005, in cui un terzo degli italiani dichiara di usare abitualmente - in famiglia o tra amici - sia l’italiano sia il dialetto. 
Quella mescolanza tipica della scrittura di Camilleri è diventata l’esperienza quotidiana di gran parte dei parlanti. Se ne sono accorti anche i vocabolari, sempre più aperti verso parole d’origine regionale o dialettale: nell’appendice 2008 del Grande dizionario italiano dell’uso, Camilleri raggiunge quasi Calvino per numero di citazioni. Il dialetto non è più un delitto. 


Mariantonia Cerrato, L’alzata d’ingegno. Analisi sociolinguistica dei romanzi di Andrea Camilleri, Firenze, Cesati, pagg. 198

Ascesa e declino della scrivania



Doppiozero

Dopo aver sputato fuori dal finestrino e acceso un sigaro sfregando il fiammifero sulla suola dello stivale, il pistolero Frank (Henry Fonda) si siede dietro alla scrivania di Morton (Gabriele Ferzetti), l’industriale delle ferrovie per il quale ha fatto qualche lavoro, «per togliere i piccoli ostacoli dai binari». È un momento di C'era una volta il West di Sergio Leone  (1968); i due si trovano in un vagone ferroviario lussuosissimo perché è la sede del capo e anche la scrivania è come si deve. Per qualche minuto il pistolero si siede alla scrivania, mentre l’uomo di affari sta in piedi dall’altra parte.
«Che cosa si prova a stare seduto lì dietro, Frank? », chiede Morton. LEGGI TUTTO...

Le stanze degli scrittori


Archivio Caltari. CLICCA QUI

Doppiozero: tavoli. CLICCA QUI

Marco Belpoiti, Al tavolo

Quanti tavoli possiede uno scrittore? Italo Calvino, racconta Pietro Citati, ne aveva tre nella sua casa di Campo Marzio, a Roma, poiché lavorava nel medesimo tempo a diversi progetti; a detta di Giuseppe Conte le scrivanie sarebbero state invece cinque. In una foto di Ugo Mulas, scattata all’autore del Barone rampante, quando ancora abitava a Parigi, anni prima, lo si vede scrivere con la penna, una cartellina di fogli aperti davanti a sé, altre carte intorno: una confusione ben ordinata.


Anche Pasolini di tavoli ne aveva più di uno: nella casa romana, ma anche nel buon ritiro di Chia. Anche qui uno scatto, foto di Dino Pedriali (Pier Paolo Pasolini, Johan & Levi): il poeta sta correggendo un dattiloscritto a penna, la sua fedele Lettera 22, libri impilati sul tavolo di legno, una copia dell’Espresso. La concentrazione calma e fattiva dell’autore al lavoro.


Ma non c’è solo il tavolo dello scrittore. Nell’atelier del pittore c’è spesso un ripiano su cui Picasso, Miro o Henry Moore lavorano, disegnano, scrivono, e anche leggono. Uno spazio fisico e insieme mentale, dove prendono forma i pensieri, le idee, le immagini interiori. In un recente libro, Atelier(Moretti & Vitali), dedicato ai luoghi della creazione, Elisabetta Orsini parla di questo spazio come della sintesi tra il mentale e il corporeo, tra il fuori e il dentro. L’artista, lo scrittore, vi si rifugia, e così si chiude in se stesso; si concentra, s’allontana dal mondo, e in questo modo lo raggiunge, offrendogli l’opera che va componendo.


In un testo pubblicato per la prima volta nel 1976, Georges Perec scrive una nota sugli oggetti che si trovano sulla sua scrivania (Pensare/Calssificare, Rizzoli), un elenco, ma anche una descrizione che esclude libri, fogli, carta. Al termine di queste brevi pagine, osserva che l’elenco, nucleo di un progetto più ampio mai realizzato, è per lui un modo per parlare del proprio lavoro, della sua storia, delle preoccupazioni: “uno sforzo per cogliere qualche cosa che appartiene alla mia esperienza, ma non a livello di esperienze lontane, bensì nel vivo del suo manifestarsi”.

Dunque, sul tavolo di lavoro c’è l’esperienza dell’autore, mentre si fa. Gli oggetti che si trovano sulla scrivania, lo stesso tavolo quale oggetto, non sono qualcosa d’inerte; rivelano il modo concreto d’essere dell’autore, nel momento stesso in cui si manifesta. Sono un’estensione del suo stesso corpo, anche quando non c’è, non è lì.
Per questa ragione quando con Giovanna Silva, fotografa, abbiamo pensato di scattare un’immagine delle scrivanie di vari autori (scrittori, artisti, scienziati, disegnatori, saggisti, poeti, musicisti, ecc.) abbiamo escluso la presenza dell’autore, o meglio: abbiamo cercato l’autore nella sua assenza, nella presenza dei suoi oggetti e strumenti di lavoro.

Al contrario di quanto scriveva un pessimista impiegato praghese, Franz Kafka, nei suoi Diari (“Ora osservo con più attenzione la mia scrivania e ho concluso che non si può cavare niente di buono”, 24 dicembre 1910), pensiamo invece che nel disordine del tavolo – o invece nell’ordine quasi perfetto, come in questa immagine di Walter Siti, con cui cominciamo questa mostra tascabile delle scrivanie – ci sia il segno dell’autore, il suo stile, quasi come nella sua prosa, o nelle sue linee o colori, oppure note; c’è lo stigma della sua personalità più profonda.
Lo scopo di queste immagini che andiamo via via pubblicando non è tuttavia quello di rivelare un autore, bensì di leggerlo, d’interpretarlo, di conoscerlo. La scrivania parla di lui con lui. Come scrive Orsini, il ripiano su cui lavora “è quel luogo fisico nel quale l’artista raggiunge il posto astratto dei suoi pensieri”. Sospeso tra astrazione e concretezza, il tavolo appare come un’estroflessione della sua mente, della mente che ha in mente.


Finestre

Ormond Gigli (1925)

Finestre

MARIAROSA MANCUSO

"La Lettura", 30 settembre 2013

Lasciamo volentieri i paesaggi sconfinati, gli orizzonti lontani, le radure dove l’occhio si perde. Ci teniamo le finestre, che in leteratura sono più interessanti.
Delimitano, incorniciano, indirizzano l’occhio, traggono in inganno. Sono il cinema prima del cinema. Sono quadriche non richiedono un pittore. Sono scene che non hanno bisogno di un regista. Da una finestra senza inferriate Peter Pan vola in camicia da notte verso i Giardini di Kensington. Da una finestra, con un cannocchiale, Nathanael osserva Olimpia in L’uomo della sabbia di E. T.A. Hoffmann (senza sospettare che la bella dagli occhi fissi è una bambola meccanica costruita da Spallanzani). Da una finestra, il ferroviere Roubaud osserva la Gare Saint-Lazare in La bestia umana di Émile Zola (poi, guardando i finestrini di un treno in corsa, scorgerà un delitto). Dietro una finestra appare il fantasma di Catherine in Cime tempestose Brontë. Un’altra finestra rimane aperta alla morte di Heathcliff, finalmente riunito con l’amata nella brughiera celeste.
Accanto alle finestre vere, merita una menzione speciale il Dottor Vetrata di Cervantes: un folle che si crede una finestra fragile e trasparente, quindi dorme nella paglia e si tiene lontano dai ragazzini armati di pietre. LEGGI TUTTO...

L'artista viene alla finestra

Ada Masoero 

“Domenica – Sole 24 ore”, 21 Ottobre 2012

Posti su una parete della mostra Una finestra sul mondo, i versi di Rainer Maria Rilke: «Non sei forse tu, finestra, la nostra geometria, forma così semplice che senza sforzo circoscrivi la nostra vita immensa?» condensano al meglio le premesse teoriche che hanno guidato i curatori – Giovanni Iovane e Marco Franciolli, con Sylvie Wuhrmann per la variante ridotta che si terrà nella Fondation de l'Hermitage di Losanna, e Francesca Bernasconi – nel progettare e realizzare in modo così felice una rassegna concettualmente complessa come questa. 
Rilke era stregato dalle finestre, convinto com'era che la loro forma modellasse la nostra idea del mondo: circoscrivendo una porzione del reale, esse ci regalerebbero infatti una chiarezza di visione altrimenti inattingibile nel disordine della nostra "vita immensa". Non era certo il solo a pensarla così: si poneva infatti nel solco di una speculazione antica, nata nell'Umanesimo, quanto l'arte visiva occidentale si era data l'obiettivo di farsi mimesi del reale e aveva codificato la rappresentazione attraverso i principi della prospettiva artificiale. E cosa, più della finestra, poteva offrirne una trascrizione visiva calzante? A provarlo è una bibliografia vastissima, che nel tempo ha dato conto delle nuove valenze, ora oggettuali ora simboliche, di cui questo oggetto, apparentemente solo funzionale, si è caricato. La sfida era tradurre concetti così complessi in un percorso di opere che coprisse un arco temporale tanto vasto e che, offrendosi a più livelli di lettura, sapesse essere al tempo stesso stimolante per la mente e seducente per lo sguardo. Ed è ciò che i curatori sono riusciti a realizzare in questa mostra divisa tra le due attuali sedi dei musei di Lugano (il Museo d'Arte di Villa Malpensata e il Museo Cantonale, diretti da Marco Franciolli), primo passo di un percorso che si concluderà con l'inaugurazione del nuovo museo all'interno del grande polo culturale che sta sorgendo sul Lungolago. 

I primi capitoli della mostra vanno in scena nel Museo d'Arte: qui scorrono le premesse poste nel passato, dal '400 alle avanguardie storiche del primo '900, mentre la sola arte contemporanea occupa il Museo Cantonale. E la prima sezione non poteva che aprirsi con Leon Battista Alberti, che nel 1436, nel trattato De Pictura, suggerisce ai pittori un suo efficace artificio per riprodurre fedelmente il reale: per farlo, scriveva, io «disegno un quadrangolo di angoli retti ... il quale mi serve per un'aperta finestra dalla quale si abbia a veder l'istoria». Che l'esegesi successiva abbia poi aggiunto a tale precetto meramente strumentale il dettaglio tutt'altro che trascurabile che tale finestra sarebbe stata «aperta sul mondo», ha fatto la fortuna di questa formula didattica, arricchendola di quei valori metaforici che per secoli hanno fatto della finestra uno dei "luoghi topici" dell'arte occidentale. 
Si parte dunque con la trattatistica rinascimentale e con il reticolo quadrettato (il «quadrangolo di angoli retti») di cui i pittori prendono a servirsi, per esplorare poi nelle sezioni successive le modalità con cui, fino al primo '900, l'arte occidentale si è rappresentata. Ma ha ragione Franciolli quando suggerisce di abbandonarsi al piacere visivo: le opere sono infatti bellissime, spesso anche poco note e rare. Ecco allora i ritratti dei personaggi incisi da Dürer, nei cui occhi si riflette sempre la sagoma di una finestra (per dimostrare che il soggetto è vivente? È una delle spiegazioni, forse la più pertinente). Ed ecco le "nature morte con finestra": una finestra che è ora fisicamente presente, ora invece è allusa – come in un fuori campo – da un fascio di luce che piove obliquamente (ma in una plumbea, preziosa Vanitas olandese del 1650 la si scopre poi, minuscola, anche riflessa nel bicchiere). L'800 sviluppa e trasforma questo tema in senso simbolico: le finestre a cui sono affacciate le figure di Füssli e di Constable, di Thoma e di Munch sono al tempo stesso soggetto del dipinto e soglia che separa il "dentro" dal "fuori", lo sguardo interiore dall'interazione con la società. E alla fine del secolo i paesaggi colti dalla finestra, con le prospettive sghembe che i maestri del modernismo (Matisse, Bonnard, Vuillard, Vallotton, Balthus, come i grandi fotografi del Bauhaus) imprimono alle loro composizioni, sovvertendo le regole prospettiche classiche e fondando un nuovo linguaggio visivo, costringono lo sguardo dell'osservatore a spericolate acrobazie e inducono a riflettere sul rapporto fra arte e realtà, non meno del dipinto emblematico di Magritte della Collezione Thyssen, del 1936, con il paradosso visivo di un paesaggio che si fa tutt'uno con il vetro della finestra. Diverso il fronte su cui sin dal 1914 si muove Mondrian, che traduce il palazzo di fronte al suo studio in un reticolo di segni ortogonali: comprime così lo spazio in una piatta bidimensionalità e trasforma il reale in una di quelle "griglie", poi dominanti nell'arte del '900, che Rosalind Kraus esplorava nel 1978 in un suo famoso saggio. 
In tutte le sezioni, però, autori di oggi mostrano efficacemente come ognuno di questi temi sia rimasto vivo, seppure in forme nuove, fino ai nostri giorni. Ma è il passaggio al Cantonale che ci conduce dentro al contemporaneo, con una riflessione che, prendendo il via di volta in volta da Albers, Duchamp (non poteva mancare la finestra "cieca" di Fresh Widow) o Rothko, mostra il percorso poi compiuto da un gran numero di artisti contemporanei (da Agnes Martin a Richter, da Paolini a Turrell e Buren, da Ruff, Dibbets, Uncini ad Angela Bulloch, Rehberger, Joan Jonas, Anri Sala...), per giungere da un lato agli "schermi" cinematografici o televisivi di Sugimoto, Schifano, Dynys, dall'altro alla laconica asserzione, scritta con il neon, di Cerith Wyn Evans: Think of this as a Window. Mentre Windows – un nome non certo casuale– sui nostri pc ci spalanca nuove "finestre sul mondo". 

Una finestra sul mondo. Da Durer a Mondrian e oltre, Lugano, Museo d'Arte e Museo Cantonale, fino al 6 gennaio. Catalogo Skira

Laura Larcan, "La Repubblica":, 21 settembre 2012
 
DA LEON BATTISTA ALBERTI a Magritte, da Rothko a Schifano, la "finestra" ha giocato un ruolo chiave nella storia dell'arte moderna e contemporanea. E' stata uno sguardo prospettico che misura "matematicamente" l'essenza dello spazio, e l'orizzonte romantico di scenari sognati o temuti. E' stata "protagonista principale" della scena con il suo caleidoscopico gioco di variazioni cromatiche e divertissement di luci-ombre, fino a trasfigurarsi come simbolico "teatrino" di oniriche riflessioni. Fino alla finestra digitale che offre spettacoli virtuali. il tema quanto mai ricorrente nell'arte viene indagato ora per la prima volta da una grande mostra dal titolo "Una finestra sul mondo. Da Dürer a Mondrian e oltre", visitabile fino al 6 gennaio nella doppia sede del Museo Cantonale d'Arte e del Museo d'Arte di Lugano.LEGGI TUTTO...


Fresh Widow. Fensterbilder seit Matisse und Duchamp

Edited by Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf, foreword by Marion Ackermann, texts by Elke Bippus, Ina Blom, Erich Franz, Rune Gade, Stefan Gronert, Christoph Grunenberg, Peter Kropmanns, Doris Krystof, Caroline Käding, Heinz Liesbrock, Isabelle Malz, Christian Müller, Maria Müller-Schareck, Hans Rudolf Reust, Lisa Schmidt, Rolf Selbmann, Melanie Vietmeier, John Yau, graphic design by Sascha Simon Brenner, Sascha Lobe, L2M3 Stuttgart
German










Noi, inventori della storia dell'arte


Salvatore Settis

"Il Sole 24 ore", 21 ottobre 2012 

Fare «storia dell'arte» non è ovvio. Tutte le civiltà umane hanno prodotto "arte", pochissime hanno prodotto anche una narrazione di eventi dell'arte. Perciò ha senso la domanda: come nacque la storia dell'arte? 
Nella tradizione occidentale la storia dell'arte è solo una parte della "letteratura artistica", un ambito assai più vasto che include i trattati sui colori o l'iconografia (come la Schedula diversarium artium di Teofilo), gli scritti di topografia artistica come i Mirabilia Urbis Romae e le descrizioni di immagini in poesia e in prosa (ekphrasis).
La produzione di "opere d'arte", che spesso ebbero funzioni miste (magiche, religiose, estetiche, politiche) è propria di tutte le culture umane conosciute. Poche civiltà, tuttavia, hanno sviluppato una qualche forma di "storia dell'arte", e cioè uno specifico genere letterario che disponga in narrazione storica le vite degli artisti e le loro opere. 
Nella Kunstliteratur di Julius Schlosser vengono indicati quali incunaboli della storia dell'arte i tre Commentarii di Lorenzo Ghiberti (1450 circa), che contengono biografie di artisti, organizzate secondo una parabola evolutiva, il cui inizio nell'antichità greco-romana – tolto dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio – è delineato nel primo Commentario.
Ma già nel Medio Evo vennero citate notizie sulle arti tratte da Plinio. In particolare Petrarca, che nel 1350 comperò a Mantova un manoscritto della Naturalis Historia e a margine di questo tracciò di suo pugno un disegno simbolico di Roma accompagnandolo con queste parole: «Non ci fu mai nulla di così mirabile in tutto il mondo». Nello stesso anno acquistò anche un manoscritto dell'Institutio oratoria di Quintiliano. Egli fu il primo a tentare creativamente la lettura combinata dei testi antichi (specialmente Plinio e Quintiliano) per intendere il lavoro degli antichi maestri. Nel trattato De remediis utriusque fortunae, Petrarca inserì un capitolo de tabulis pictis e uno de statuis, attingendo a Plinio e a Quintiliano e cogliendo i punti in comune fra loro.
Al primo traduttore di Plinio in volgare, Cristoforo Landino (1476), si devono concise notizie sugli artisti (specialmente fiorentini) nei suoi commenti a Orazio e a Dante. Una conoscenza di Plinio (ma anche di Vitruvio) è il presupposto di ogni altro scritto del Quattro e Cinquecento italiano, come ad esempio il Libro di Antonio Billi (ante 1520) o l'Anonimo Magliabechiano (ante 1542). Fra Quattro e Cinquecento, abbozzi storici ed elenchi di artisti e di opere si vanno facendo dappertutto, sempre con forte marca locale: basti richiamare i gusti della corte di Napoli rispecchiati nel De viris illustribus di Bartolomeo Facio ( 1456 circa), il poema in terza rima del padre di Raffaello, Giovanni Santi, le liste romane di Raffaello Maffei (1506), e a Venezia il cantiere incompiuto di Marcantonio Michiel (che su Napoli si informava dal suo corrispondente Pietro Summonte, 1524). LEGGI TUTTO...

Le barche si perdono a terra


Tropea Editore


Annega Ofelia, che bellezza!


Alvar González-Palacios

"Domenica - Il Sole 24 Ore", 25 novembre 2012

Da un mare di trucioli emerge, in mezzo alla bottega di un falegname, una figura seminuda con le braccia alzate e gli occhi al cielo. È un giovane uomo con una barba corta e dei lunghi capelli sparsi sulle spalle, la veste arrotolata sotto la vita e le gambe sinuose, quasi in posizione di danza. Si indovina che è Cristo non solo per le sembianze ma per la sua ombra che si proietta sul muro di fondo e sembra preannunciare la crocifissione. Dalla bifora si vede un paesaggio mediterraneo e all'interno dell'ambiente sono sparsi oggetti simbolici come due melograni. Sul muro, in corrispondenza dell'ombra ci sono chiodi, pinze e martelli e all'altezza del cuore un peso rosso. La figura inginocchiata a sinistra apre un cofano con una corona e oggetti preziosi; i doni dei Re Magi.
Parliamo di un dipinto eseguito da William Holman Hunt in un paio d'anni a partire dal 1870. È una tela di grandi dimensioni (214 x 168) per la quale il pittore si sentì nel dovere di recarsi in Terra Santa, con uno scrupolo storico e un'ossessiva attenzione per i dettagli. Ogni truciolo, ogni venatura del legno su cui è appoggiata la sega, ogni particolare delle vesti e persino della peluria biondastra del Redentore – atteggiato come un martire del Perugino o, bizzarramente, della Danzatrice coi cembali di Canova – è stato studiato al millimetro. Il risultato è commovente.
Una volta superata la sorpresa e lo stupore per il dettaglio resta comunque l'ammirazione per il sentimento religioso del pittore. Come tutti i preraffaelliti Hunt non manca di una certa morbosità che va oltre lo splendore tecnico della sua arte.
Egli è a mio modo di vedere il più coerente pittore fra i preraffaelliti, una fratellanza fondata a Londra nel 1848 da John Everett Millais, Dante Gabriele Rossetti e Ford Madox Brown. Rossetti, di origine italiana, era forse il più colto; fu anche poeta di un certo merito. I suoi primi quadri toccano talvolta punte liriche con una grande economia di mezzi. La sua Annunciazione (Tate Gallery) è impostata su bianchi, azzurri e gialli, con un solo tocco rosso espresso nel ricamo a destra. C'è un che di giapponese in quel particolare mentre la composizione prova a evocare immagini rinascimentali. L'insieme, che sfiora la metà del secolo, dovette molto interessare le generazioni successive e anche Whistler. Rossetti però non resterà sempre fedele a queste immagini così semplici e così struggenti. Col passare degli anni la sua tavolozza si addenserà e diverrà un perenne omaggio a Tiziano e ai veneziani più sensuali, con protagoniste dalle lunghe chiome alle quali cercherà invano di rifarsi quella cartellonista teatrale che si chiamava Tamara de Lempicka.
Dal punto di vista artigianale forse il più dotato dei preraffaelliti è Millais. Una sua opera resta, a giusto titolo, non solo uno dei quadri inglesi più noti ma uno dei più bei quadri europei della metà dell'Ottocento, l'Ofelia, dipinta subito dopo la metà del secolo e fedele alla narrazione dell'Amleto. La giovane, impazzita e coperta di fiori, si adagia in un rivo intonando vecchie melodie prima che il peso delle sue ricche vesti la trascini sul fondo. La composizione è un pretesto per raffigurare con minuzia da frate medievale infinite specie della flora britannica al punto che alcuni pedanti come il poeta Tennyson criticarono la presenza di fiori che non sbocciano nella stessa stagione. LEGGI TUTTO...

sabato 6 luglio 2013

Le parole che hanno (ri)fatto l'Italia



Abbiamo un rapporto distratto con le parole. Le adottiamo senza pensarci, ignorando che hanno una storia e una data di nascita, come fossero creature viventi. I vocabolari ne sanciscono l’entrata nel patrimonio comune della lingua, segnalandone spesso la profondità storica. Per esempio, prendete lo Zingarelli 2013, il monumento pubblicato da quasi un secolo dalla Zanichelli, e andate a spulciare i termini accolti nell’ultimo ventennio: avrete un quadro, attraverso le parole, dei cambiamenti del costume, della società, della tecnologia, della politica, perché la lingua, pur mantenendo salde le sue strutture, non fa che metabolizzare instancabilmente le novità, belle e brutte, del mondo.

Quello del lessicografo è un mestiere affascinante e complesso, deve guardare all’indietro per non dimenticare niente, ma insieme deve registrare il presente e tener d’occhio il futuro: valutare se un termine avrà la durata che gli fa meritare una presenza nel vocabolario. Mario Cannella, responsabile dal ’94 della revisione dello Zingarelli, è ben consapevole del suo compito: «Traghettare il patrimonio lessicale verso le giovani generazioni». Se gli si chiede com’è cambiato il nostro lessico negli ultimi decenni, risponde che «la velocità è diventata impressionante nella vita e ha un riflesso anche nelle parole, nel turbinio di vocaboli che circolano, moltiplicato dalla enorme quantità di massmedia che li veicolano». Serve selezionare. Non tutto si può accogliere, perché un vocabolario non è un’enciclopedia e non è neanche un registratore di cassa dei neologismi. Prendiamo, appunto, l’ultimo ventennio.
È superfluo ricordare che la fine del secolo scorso ha portato con sé una enorme quantità di parole nuove nate in ambito politico, grazie a Tangentopoli (vocabolo accolto nell’edizione Zingarelli 1993) e al declino della Prima Repubblica. Nel giro di pochi anni siamo stati sommersi da una nuova ondata lessicale senza precedenti, dialettalismi, gergalismi, neoconiazioni composte e innumerevoli —ismi che oggi usiamo anche a colazione: lumbard, buonismo, perdonismo, stragismo, malasanità, cerchiobottismo, doppiopesismo, semipresidenzialismo, par condicio, postfascista, malpancismo… Berlusconi lascia traccia anche nello scendere in campo, preso in prestito dall’area sportiva. Un’intervista a D’Alema riesuma un antico vocabolo napoletano, inciucio (originariamente usato come «chiacchiericcio», «pettegolezzo»), nobilitandolo (o declassandolo) a «pateracchio» sottobanco tra partiti. Dall’opposizione netta destra-sinistra nascono il terzismo (2002) e il terzista coniato per definire chi non sposa pregiudizialmente né il blocco di destra né quello di sinistra. E non è un caso che le foibe (1998) siano entrate nel lessico in tempi di più acceso revisionismo storico. Così non deve apparire strano che mentre si parla del lavoro in crisi nelle miniere sarde il vocabolario si preoccupi di integrare parole tecniche come decarbonizzazione e rinaturalizzazione. Anche l’attualità detta le sue leggi lessicali. Ma fino a un certo punto: se gli scilipotini hanno vissuto per fortuna una stagione breve tale da escluderne una dignità da Zingarelli, per i grillini, osserva Cannella, vale la pena aspettare.
La globalizzazione, presente in ambito psicologico sin dal ’56 per indicare il processo di sviluppo cognitivo dell’età infantile, estende il suo significato all’economia e trascina con sé nel vocabolario italiano centinaia di prestiti, a cominciare dagli aggettivi inglesi global (1993), glocal (1994), no global(2001), new economy (2001). Cultura globalizzata, lingua globalizzata. Dall’Oriente arabo arrivano l’intifada (1993), il talebano (1994), mentre il kamikaze lo si conosceva sin dalla Seconda guerra mondiale ma dal Giappone si è trasferito al terrorismo islamico. Dalle immigrazioni viene importato ilburka (1999) e al kebab segue il romanesco kebabbaro (2003). Le parole migrano, anche all’interno: la lingua è glocal. E per restare nell’ambito gastronomico, il gusto diffuso della cucina regionale e delloslow food ha imposto negli ultimi tempi agli onori del dizionario nazionale piatti prima relegati in periferia: arrosticini e cazzilli, l’allorino, i plin e la culaccia.
Siamo già scivolati, come si vede, nel campo più generale del costume e della società, dove la rivoluzione riguarda soprattutto la tecnologia. E sarà un’altra ondata: da realtà virtuale (1994) ainternet (1996). Passando per tutto l’armamentario anglo-americanizzante che ormai pronunciamo quotidianamente: email (1993), cliccare (1995), masterizzare (1999), mailbox (2001), chattare (2002) eccetera, in un crescendo inarrestabile fino all’iPad e all’iPod. Le innovazioni della telefonia portano iltelefonino (già presente in Montale come innocente diminutivo: «si udì il suono del telefonino dalla portineria»), il cellulare, l’sms (1996), l’mms (2001) e il messaggino (2002), oggi in netto calo di gradimento.
Altre spinte e controspinte provengono dal costume: mentre gay è attestato sin dal 1959, lesbo eouting si rivelano al nostro vocabolario solo nel 1998, seguiti da unione di fatto (2000) e coming out(2001). Il mondo del lavoro inventa il mobbing (2001), i call center (2001), i cococo (2004). La medicina tira fuori il pillolo (1993), la mucca pazza (1997), il seno siliconato (1998), e in un solo anno (il 2000) l’aborto terapeutico, la fecondazione assistita e il viagra. Ben prima che l’Europa si unisca, il vocabolario crea l’euro (1997) per vedere l’effetto che fa, ma gli euroscettici nascono subito dopo (1999). «Il nostro compito — dice Cannella — è la ricerca dell’iceberg: scommettere sulle parole che rimangono. Migliorini per iceberg inventò isbergo e qualcun altro ghiaccione, ma non sono passati nel vocabolario, così come non è passato guardavia per guardrail. Dobbiamo evitare gli errori, cioè di inserire termini che dopo due o tre anni scompaiono dall’uso». Ci sono parole «in sonno» che ritornano, come inciucio, di cui si diceva: rottamazione entra nel dizionario nel 2000 con il significato letterale, ma ritrova una nuova vita metaforica con Renzi, che lo estende dall’automobile all’establishment del suo partito per farne un manifesto politico.
Ci sono poi le spinte giovanilistiche, su cui occorre cautela, ma non a tal punto da escludere karaoke(1993) o grunge (1994), cuccare o tamarrocannare o sclerare, ormai consacrati dall’uso anche fuori dagli ambiti gergali. «Nella colata lavica quotidiana di neologismi — dice Cannella — dobbiamo fare un’operazione simile a quella che in ambito finanziario si chiama fixing: fissare una quotazione». Fissare la quotazione delle nuove parole nell’area della famiglia e dei suoi sommovimenti è meno difficile: labigenitorialità e i divorziandi non vanno ignorati, e se le leggi italiane non riconoscono l’omoparentalità, al professor Zingarelli poco importa.
Paolo Di Stefano, "La Lettura", 14 ottobre 201
3

Bravo chi legge


Donald Sassoon

"Il Sole 24 Ore - Domenica", 11 novembre 2012

Quando Roland Barthes decretò la 'morte dell'autore', intendeva dire che quando un'testo' (che può essere un dipinto o un brano musicale) diventa di dominio pubblico, l'autore non controlla più il suo prodotto. E' il pubblico che lo fa, decifrandolo in una varietà' di modi. Non vi e' un significato originale. Per questo due amici, che si conoscono bene, di eta' e di cultura simile, hanno spesso esperienze diverse leggendo lo stesso libro o dopo avere visto lo stesso film. Ma per diventare lettori occorre imparare a leggere. 
Spesso si pensa che la prosperità, l'industrializzazione e l'urbanizzazione porti a una moltiplicazione dei lettori potenziali. Tuttavia, la corrispondenza tra la ricchezza di una Nazione e i suoi tassi di alfabetizzazione e' lungi dall'essere perfetta - né vi è un legame stabile tra alfabetizzazione (la capacita' di decifrare le lettere o di porre la propria firma) e la lettura (la lettura effettiva). 
L'alfabetizzazione non crea né un mercato per i libri, è un pubblico universale. E' vero che gli analfabeti non leggono, ma per leggere un libro non è sufficiente saper leggere. Occorrono i mezzi per comperare un libro, occorre il tempo libero per leggerlo, occorrono, spesso, incentivi sociali per leggere, e, soprattutto, occorre una certa istruzione per capire e gioire di cosa si legge. Poche di queste condizioni esistevano prima dell'Ottocento. E quando queste emersero decisamente, negli ultimi cent'anni, furono subito sottoposte alla concorrenza di nuovi mezzi per la diffusione della cultura: il cinema, la radio e poi la televisione - tutti mezzi per i quali le competenze necessarie al consumo sono inferiori a quelle richieste per la lettura. 
La strada verso il consumo dei libri è sempre piena di ostacoli, eppure il numero dei lettori ha continuato a salire. 
Oggi non sapere essere analfabeta è un grosso handicap. Non fu sempre cosi'. All'imperatore Carlo Magno non fu insegnato ne' leggere ne' scrivere. Lo storico franco Eginardo nella sua famosa Vita di Carlo Magno (830 dopo Cristo ) ci dice che l'imperatore era in grado di parlare latino, masticava un po' di greco, prendeva lezioni di grammatica, retorica, astronomia e matematica, e anche che si sforzava di scrivere e di 'abituare la mano a formare le lettere', ma avendo lui cominciato in tarda eta', tali sforzi non ebbero successo. Insomma, diciamolo pure: Carlo Magno era analfabeta. 
Si è tentati di pensare che l'incremento dell'alfabetizzazione sia stata una costante fino all'arrivo dell'istruzione pubblica obbligatoria, ma le cose non sono cosi' semplici. In percentuale piu' bambini andavano a scuola nella Firenze nel 1338 che in quella del 1911. Nel Medioevo l'alfabetizzazione nel Nord Italia era tra le piu' elevate d' Europa, poi l'Italia perse terreno. In Spagna intorno al 1625, il tasso di alfabetizzazione era simile a quello della Francia e dell'Inghilterra, ma nel 1860 la Spagna aveva uno dei piu' bassi tassi di alfabetizzazione in Europa. 
Determinante nell'espansione del numero dei lettori fu lo Stato. Il sistema di istruzione nazionale non solo insegnavano ai bambini a scrivere, ma creava un ampio mercato per i libri di testo, diffondeva una lingua nazionale (allargando il mercato per tutti i libri), rimuovevano i bambini dalla loro cultura locale e familiare e li costringevano ad affrontare quelle degli altri. Per entrare nel mondo dei libri occorre uscire dal mondo ristretto della famiglia e del villaggio. La separazione dall'ambiente familiare, sia per poche ore al giorno o per intere parti l'anno, e' infatti un fattore che contribuisce al dinamismo culturale, in particolare se il contrasto tra i valori della famiglia e quelli del sistema di istruzione e' elevato. Tale separazione fu sfruttata da repubblicani anticlericali, per i quali l'ignoranza veniva identificata con il potere della Chiesa. In Francia sottolineavano l'alto tasso di analfabetismo nella Vandea reazionaria, dimenticandosi che il tasso era basso in Alsazia, regione profondamente cattolica. Un divario c'era ma rifletteva, almeno dall'Ottocento in poi, un divario Nord-Sud che non era sempre connesso a divisioni religiose, infatti tale divario geografico esisteva anche in Paesi come l'Olanda, l'Italia e l'Inghilterra. 
Gli anticlericali non avevano tutti i torti. Almeno fino alla fine del Settecento la Chiesa cattolica riteneva che l'alfabetizzazione avrebbe facilitato la diffusione di idee luterane nelle campagne, ed e' per questo il Vescovo di Graz voleva abolire le scuole rurali 'per prosciugare alla fonte il veleno dell'eresia'. Il vescovo perse la sua battaglia e le autorita' politiche (e cioe' l'impero asburgico) impose il diritto, ma non ancora l'obbligo, di frequentare la scuola. 
Il risultato fu che i territori italiani dell'Austria di Italia ebbero una qualche forma di scolarizzazione elementare all'inizio del XIX secolo, mentre nello Stato Pontificio la Chiesa rimase fermamente contraria alla diffusione dell'istruzione. In Spagna fino alla meta' del Settecento la Santa Inquisizione vieto' la pubblicazione di storie popolari come Historia de Carlo Magno e La Historia de la Pasion de Jesu Cristo, ma in Russia modernizzatori come Pietro il Grande e Caterina la Grande lanciarono campagne di alfabetizzazione, anche se con scarso successo. 
Grazie al servizio militare abbiamo buoni dati per l'alfabetizzazione in Francia, grazie al servizio militare. Dei sei milioni di soldati arruolati nel 1881-1900, l'87 per cento sapevano leggere e scrivere, ma avendo frequentato solo le elementari ben pochi di questi erano propensi a leggere un semplice libro o un giornale. Si calcola che il pool dei lettori in Francia non era molto superiore al tre per cento. 
I tedeschi alla fine dell'Ottocento leggevano piu' libri degli italiani (come adesso). Probabilmente leggevano piu' libri di qualsiasi altro Paese in Europa, e certamente pubblicavano di piu'. Ma era questo dovuto dalla maggiore prosperita' dei lavoratori tedeschi, o alla dimensione piu' grande della sua classe media? Quello che determina la dimensione del mercato del libro non e' tanto la prosperita' o l'alfabetizzazione della classe operaia, ma quella della classe media e la sua espansione.
Qui l'Italia non era particolarmente ritardataria. Nel 1901 aveva - in proporzione alla popolazione - piu' medici e piu' avvocati della Germania. Eppure meno libri venivano venduti in Italia che in Germania (o in Francia o Gran Bretagna) perche', in quei Paesi non solo i professionisti delle classi medie leggevano ma anche il crescente esercito di commercianti, operai specializzati, impiegati e piccoli imprenditori. E in Germania e in questi gruppi leggevano un quotidiano, cosa che non avveniva in Francia e in Italia. 
Cosa leggevano questi ceti medi? Di certo non i grandi classici della letteratura. Leggevano i romanzi cosiddetti popolari, mentre il popolo nulla o poco. I colti, ieri come oggi, se la prendevano contro i feuilletonistes di grande successo come Eugene Sue - un po' come oggi imprecano contro i successi di Dan Brown per non dire del Cinquanta sfumature di Grigio della E. L. James che nel mondo ha venduto 20 milioni di copie in 10 settimane. Il critico Sainte-Beuve, pure avendo simpatia per Sue, scriveva a un amico che se Sue saltava una puntata perche' malato, il giornale era costretto a scusarsi con i lettori, e aggiungeva: 'Se Chateaubriand ha la gotta non importa nulla a nessuno, ma se Sue ha il raffreddore, e' un disastro nazionale.' Plus ca change...