sabato 6 luglio 2013

America padrona del secolo


Valerio Castronovo

"Domenica - Il Sole 24 ore", 11 novembre  2012

Anche se Barack Obama, rieletto ora alla Casa Bianca, ha mostrato durante il suo primo mandato di considerare l'Europa un partner importante con cui dialogare, va comunque tenuto presente un paradigma che da sempre ha caratterizzato i rapporti di Washington con l'altra sponda dell'Atlantico: ossia, il convincimento che l'America abbia molto da insegnare e ben poco da apprendere.
Da oltre un secolo la sua classe dirigente è portata infatti a proiettare all'estero quella che ritiene, al l'insegna di un ideale "destino manifesto" della propria nazione, una sorta di missione pedagogica dalle valenze universali: sia che si tratti di orientamenti politici e precetti economici o di modelli culturali e stili di vita. Quest'ambizione era emersa fin dagli inizi del Novecento, quando l'Europa degli imperi deteneva ancora le chiavi del mondo. E si era poi affermata con sempre più evidenza nel periodo fra le due guerre: con i "Quattordici punti" di Wilson alla conferenza di Versailles per la preservazione della pace, con il sistema di fabbrica fordista quale strumento per eccellenza di razionalizzazione produttiva, con il New Deal rooseveltiano quale antidoto alla Grande Crisi del 1929 e cardine di un capitalismo riformato.
Quanto fosse marcata e coerente questa vocazione didattica degli Stati Uniti, in quanto certi di dover svolgere un ruolo cruciale nelle relazioni col resto del mondo, in nome del progresso e di un migliore ordine internazionale, lo si è constatato all'indomani della Seconda guerra mondiale, dopo il passaggio degli Stati Uniti dall'isolazionismo alla mobilitazione in armi per l'annientamento dei regimi nazifascisti. Talmente è risultata risolutiva sia l'assistenza americana per la ricostruzione post-bellica dell'Europa occidentale, sia l'opera a tutto campo di Washington a presidio delle istituzioni democratiche, nonché della correlazione fra stabilità politica e prosperità economica, dei Paesi alleati durante le emergenze della Guerra Fredda.
Ciò nonostante, il rapporto degli europei con i loro cugini d'Oltreatlantico è sempre stato controverso, a corrente alternata. Il punto nodale di questa perenne dialettica transatlantica sta nel fatto che le idee e le innovazioni prodotte in America e che essa mirava a diffondere, con altrettanta forza che sicurezza nella loro esemplare validità, comportavano una visione della civiltà occidentale e del suo futuro tale da costringere il Vecchio Continente a rivedere le sue concezioni e liturgie tradizionali, a ripensare in sostanza, volente o nolente, la sua stessa identità.
Che cosa abbia significato, per le nazioni europee, non solo il crescente potere politico ed economico statunitense, ma l'impatto della cultura americana, dei suoi codici e dei suoi miti, è l'ordito di un saggio illuminante dello storico inglese David W. Ellwood.
In effetti, nell'itinerario che ha portato gli Stati Uniti ad acquisire man mano una posizione egemone nel confronto con l'Europa, una notevole influenza hanno avuto anche determinate manifestazioni tipiche del folclore e della realtà culturale americani per la loro risonanza e pervasività a livello mediatico: dal cinema di Hollywood al music-hall, dal jazz al rock, dal divismo alla moda, dai serial televisivi alla spettacolarizzazione degli eventi di cronaca, dalla pubblicità alla filosofia consumistica, dalla combinazione fra tecnologia e arti applicate, a un amalgama di usanze e impulsi eterogenei provenienti da tante comunità di immigranti. Un mix di moventi e suggestioni accessibili a tutti e condivisibili da vaste platee di massa. Come lo sono stati, in tempi più recenti, la soap opera, internet, la Rete, il femminismo, l'ambientalismo, twitter.
In Europa queste e altre espressioni della cultura sociale americana sono state considerate per lo più come il prodotto di interessi commerciali o di tendenze senza un autentico spessore. Sta di fatto che, proprio per questo, le élites del Vecchio continente ne hanno sottovalutato per lungo tempo l'incidenza e non sono giunte comunque a proporre, in alternativa, progetti e messaggi emblematici che avessero una propria specificità culturale e un'analoga capacità di attrazione.
Anche sul versante dell'immaginario collettivo si è giocata perciò la sfida per la modernità che, condotta dall'America in forme sempre più efficaci e popolari nella competizione con l'Europa, ha concorso alla sua leadership e all'espansione dei suoi ideogrammi e abiti mentali: ancor prima che, in seguito al crollo del comunismo sovietico, del loro antagonista storico, gli Stati Uniti divenissero un'iperpotenza politica e accrescessero anche il loro magnetismo nell'ambito del costume e del l'opinione comune.
Senonché c'è da chiedersi, dopo che l'assioma del libero mercato, enfatizzato dall'establishment americano quale chiave di volta della globalizzazione, ha finito per degenerare in un turbocapitalismo finanziario e provocare una devastante recessione, se gli Stati Uniti saranno capaci di inventare un nuovo modello di sviluppo sostenibile e responsabile. E intendano ancora esportare i principi della liberaldemocrazia (dato che le leve del "soft power" sono state in pratica relegate ai margini dopo l'attentato terroristico del settembre 2001) o non si convertano invece, spostando il baricentro della loro politica estera, a un pragmatico compromesso con la Cina, l'ultimo "pianeta russo". Inoltre è ora assai più arduo continuare a far testo in un universo segnato dall'irruente reviviscenza di etnocentrismi culturali autoreferenziali.
Resta il fatto che l'Europa non è finora riuscita a fare un salto di qualità verso l'unificazione politica. E perciò a esercitare, in base ai suoi valori etici e retaggi culturali, un ruolo di rilievo nell'odierno mondo multipolare.

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